Profondità di campo

Profondità di campo

Gli argomenti sono stati trattati allo scopo di definire alcuni aspetti tecnici necessari alla gestione di una peculiarità visiva di grande valore espressivo: la nitidezza. La nitidezza dell’immagine di uno spazio reale che si sviluppa in profondità – dalla lente verso l’infinito (?) – viene descritta con il termine Profondità di Campo.

Come si è detto nel nostro blog in altre occasioni (leggi l’articolo La Nitidezza) l’immagine è la riproduzione di una realtà tridimensionale su un piano bidimensionale. Per tanto, la parte riprodotta “fedelmente” coincide solo con un determinato spazio reale. Il termine “fedele”, nella fattispecie, non si riferisce alla riproduzione della prospettiva o del colore o della tonalità, ma al trasferimento sull’immagine dei dettagli presenti nel mondo reale. La Profondità di Campo Nitido o semplicemente Profondità di Campo (PdC o DoF, dall’inglese Depth of Field) è quindi l’intervallo di distanze davanti e dietro il piano di messa a fuoco in cui la sfocatura è impercettibile o tollerabile; intervallo di distanze percepite dall’osservatore come “simili” al mondo reale. Dal punto di vista ottico, ciò significa che la dimensione dei punti dell’immagine di un oggetto posto all’interno della Profondità di Campo non supera il limite del Cerchio di Confusione (vedi il già citato articolo “Il Controllo della Nitidezza). Oltre che dalle dimensioni del formato, la profondità di campo è determinata anche dalla lunghezza focale dell’obiettivo, dall’apertura del diaframma e dalla distanza di messa a fuoco. In particolare, la PdC è maggiore quando: la lunghezza focale  è minore, l’apertura del diaframma è minore, la distanza di messa a fuoco è maggiore. C’è da aggiungere che la PdC è più estesa dietro il piano di messa a fuoco – verso distanza ? – e meno estesa davanti al piano di messa a fuoco, verso la macchina da presa. Più precisamente, rispetto ad una determinata distanza, la PdC si sviluppa per circa 2/3 verso infinito e per circa 1/3 verso la MdP. Se, ad esempio, con un determinato obiettivo, una determinata apertura di diaframma e un determinato formato, la distanza di messa a fuoco è a 5 mt e la PdC complessiva è di 3 mt, l’area nitida andrà da 4 mt a 7 mt.

Un film che ho girato presenta una situazione esplicativa dell’argomento. La scena è un Esterno Notte, la location un Bosco. Un gruppo di tre fuggiaschi percorrono un sentiero, illuminati dal riverbero della luce della luna. Improvvisamente la jeep dei loro inseguitori – a fari accesi – li sorprende alle spalle. I fuggiaschi si dividono. Gli inseguitori puntano su uno dei tre, ignorando gli altri. Durante le riprese ho pensato di risolvere in questo modo: girare il Master al calare del sole, quando c’è ancora visibilità ma i raggi non  irradiano direttamente la scena e poi, andando avanti, girare i piani più stretti sfruttando la luce artificiale dei fari della jeep. L’ultima inquadratura da fare era la figura del fuggiasco inseguito che corre verso la Macchina da Presa. La lente era un 135 mm. Il diaframma T 1.3. Le dimensioni del sensore (la MdP era una Red One Mysterium X) erano 24.4 mm x 13.7 mm. Ossia: la distanza tra il soggetto e la MdP diminuiva rapidamente; in macchina c’era un teleobiettivo; Il diaframma era a tutta apertura; il formato del sensore era assimilabile al Super 35 mm. Di ciò che ha pensato il Focus Puller ne parlerò nel prossimo articolo!

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