
La nitidezza
Uno degli scopi dell’artista che si propone di riprodurre il reale – che sia un pittore, un fotografo, un cineasta – e quello di illudere l’osservatore/spettatore dell’esistenza di una profondità sulla superfice bidimensionale dove sono collocati gli elementi visivi dell’opera; la tela per l’artista, il film e lo schermo della sala per ciò che ci riguarda più direttamente. Del resto la mancanza di profondità nell’immagine, come la mancanza del colore, non aderisce alla percezione di chi fruisce l’opera, che è appunto consapevole della tridimensionalità del reale e vede i colori. Ciò vuol dire che uno degli sforzi di chi produce immagini, risiede nel generare effetti che suggeriscano il rilievo.
La volontà di illudere di una tridimensionalità di fatto inesistente, è stata sostenuta dagli studi e dall’applicazione della prospettiva, prospettiva che nel cinema è data dalle diverse angolazioni con cui la macchina da presa è collocata rispetto alla scena. Un altro effetto che può essere usato a tale scopo è il chiaroscuro, ma anche gli altri tipi di contrasto come quello tra i colori caldo/freddo, tra i complementari e via dicendo. Naturalmente il talento dell’artista – e del cineasta – risiede nella sensibilità con cui è in grado di applicare i codici visivi.
La nitidezza è anche un elemento di grande potenza espressiva, si pensi ai romantici e agli impressionisti che hanno spinto la dissoluzione dell’elemento fino a renderlo quasi astratto. Una considerazione a parte va fatta a proposito del Pointillisme, dove gli artisti distribuivano i colori in forma di piccoli punti.
In fotografia la nitidezza dipende dal potere risolvente degli obiettivi, dal tipo di elemento fotosensibile – che sia un film, una terna di sensori o un C-Mos –, dall’uso o meno di determinati filtri. Può dipendere dalla manipolazione in fase di postproduzione e, chiaramente, dalla qualità del sistema di riproduzione. In questo senso potremmo paragonare la nitidezza selettiva della Gioconda con l’uso di certe ottiche a maggior lunghezza focale e, perché no, l’esperienza del Pointillisme alla scelta di fotografare con pellicole a grana grossa.
A questo proposito è il caso di considerare che nel film The wrestler di Darren Aronofsky, la direttrice della fotografia Maryse Alberti (Indipendent Spirit Award nel 2009) ha scelto di girare in Negative-Film 16 mm e di stampare in 35 mm. Questo procedimento, denominato blow-up, è stato sfruttato dalla Alberti proprio per ottenere quella particolare grana come segno di una dissoluzione dell’immagine – che si rifà a quella interiore del personaggio – che poi è il sotto-testo che pervade l’intera storia. In Festen di Thomas Vinterberg, invece, il primo film aderente al manifesto “Dogma 95”, il DoP Anthony Dod Mantle ha minato la nitidezza girando con delle Sony PC 7E. L’effetto di realismo a volte inquietante dei film che si rifanno al Dogma è dato infatti anche dall’uso di videocamere al posto dei tradizionali supporti cinematografici.