KEY LIGHT – Luce e Cinema VI

KEY LIGHT – Luce e Cinema VI

E’ online il sesto articolo della rubrica curata da SHOT Academy ‘Key Light: Luce e Cinema’ pubblicato sulla rivista ‘Luce & Design‘.

VERGINE GIURATA
ovvero
la luce della solitudine

Nel 2015 Laura Bispuri, di cui avevamo visto lo short Passing Time (David di Donatello) e il solare e accorato Biondina (Nastro d’Argento), realizza il lungometraggio d’esordio ‘Vergine giurata’. Ad accompagnarla nella costruzione delle immagini è Vladan Radovic (David di Donatello 2015 per ‘Anime nere’ di F. Munzi), giovane e maturo cinematographer, tra i più apprezzati tra quelli della sua generazione.

La ricerca dell’identità da parte di Hana (Alba Rohrwacher) – la storia del film è liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Elvira Dones – si sviluppa in tre atti (come plot, e non come montaggio, che adotta un andamento back and forth scandito dai flashback): Hana ragazza a suo modo ribelle; la scelta di diventare Mark, un Burrnesha secondo il rito Kanun; l’arrivo in Italia e la conseguente riscoperta della propria femminilità. Hana è una bambina che vive in un paese di montagna nel nord dell’Albania. Orfana, viene ospitata dalla famiglia di Gjergi. Lila la figlia di Gjergi e Hana sono coetanee: di fatto diventano due sorelle.

L’Albania è un luogo impervio. Le montagne e la neve sono lo spazio che accoglie i villaggi, le case, le famiglie, i clan che, in un tempo senza tempo, vivono tra i boschi lontani da un’organizzazione sociale post-moderna. I contatti fra gli esseri umani sono mediati dalla natura che con la sua forza silenziosa divide piuttosto che unire. La neve è una delle forze di questo film. E Vladan Radovic sceglie appunto una luce ‘naturale’. Una luce forte, cruda nel suo aspetto e priva di artifici. Se la natura è una minaccia, gli uomini – non come razza ma come sesso – e, quindi, i padri lo sono ancora di più per delle ragazze che vogliono crescere ed essere solo se stesse. Bella la scena dello schiaffo e del rimprovero di Gjergi, con quel dito minaccioso puntato contro il volto di Hana.

figura 2

L’inizio del film: una capra che viene inseguita e catturata. Il colore saturo e poco brillante delle atmosfere montane sottolinea l’incombenza della natura e la minaccia che rappresentano gli uomini in essa. La neve è reale, non è una rappresentazione. Il blu della luce di quelle parti è reale non è un effetto. E svela la crudeltà della vita. Come una fiera che mostra i suoi canini, qui la luce mostra il suo cupo illuminare.

Nelle scene ambientate nel piccolo villaggio albanese, i montanari sono attori nella parte di se stessi e il magenta carico dei volti esprime il gelo di quella terra (e il bere troppo raki) in un modo che l’immagine stessa non ha a che fare solo con il senso della vista, ma con tutti gli altri sensi. L’impianto visivo ricorda i film dei fratelli Dardenne ma anche, in qualche modo, l’opera di Gustave Courbet, e il realismo pittorico italiano che a Courbet si è ispirato.

La cultura arcaica del villaggio, dove essere donna significa subire il potere dei padri e dei fratelli prima e dei mariti poi è lo stupro culturale di un modo di vedere, di ‘sentire’ la donna.  Dopo la fuga di Lila, paradossalmente, per scappare dal suo destino, Hana ricorre proprio a quella legge non scritta della sua terra: il Kanun. Giurerà verginità eterna e prenderà il nome di Mark, assumendo, così, l’identità di un uomo e tutti i diritti connessi a tale identità (la sorprendente somiglianza di Alba Rohrwacher con Tilda Swinton ci fa pensare, per certi versi, ad un film simile nei contenuti: ‘Orlando’ di Sally Potter).

Se il racconto è in tre parti, dal punto di vista fotografico ci sembra invece che il film sia diviso in due atti. Il primo, caratterizzato da una generale scarsa nitidezza, ci accompagna fino a circa un terzo del film. Qui la luce naturale la fa da padrona. Il secondo, visivamente più definito, inizia con la fuga di Hana e ci accompagna per tutto lo svolgimento dell’opera, da quando, abbandonata l’Albania, si ricongiunge con Lila in Italia, fino a quando recupererà la propria femminilità. Anche qui il rilievo fotografico è naturale. Viviamo le luci della città, la luce degli interni, la luce dei negozi e l’intervento del cinematographer è ridotto al minimo per non interferire visivamente con l’essenza della storia. In tal senso sono apprezzabili per il coraggio i passaggi in piena ombra del volto di Hana nelle sue tormentate notti senza sonno. Così come ci piace il linguaggio adottato. Macchina a mano per tutto il film con un instacabile e perenne inseguimento dell’attore. Una presenza fisica quella della macchina a mano che non lascia spazio a personali soddisfazioni estetiche tanto è costretto il campo visivo con il fiato dell’obiettivo sul collo di una Alba Rohrwacher azzerata nel corpo e nell’anima.

figura 4 Zeiss Distagon

La nitidezza è una caratteristica visiva di grande importanza, e graduare l’incisione dell’immagine durante l’arco narrativo di un film richiede al cinematographer la padronanza assoluta dell’opera. Obiettivi, filtri, diaframmi, uso della luce (non solo come sorgente, ma anche come direzione), tutto contribuisce a rendere più o meno morbida un’immagine. E sfibrare il contrasto è ancora più suggestivo se l’immagine acquista grandezza (intendiamo letteralmente, e cioè parliamo di grande schermo). Un nostro personalissimo bravo a Vladan Radovic per aver lavorato con gli storici obiettivi della Zeiss, i Distagon T 1.3 sulle corte focali e i Planar sempre T 1.3 sulle lunghe focali, sfruttati con grande innovazione e gusto contemporaneo.

Come lo stesso Vladan ci racconta, questi obiettivi hanno un vetro d’ottica molto morbido e se usati a tutta apertura hanno la giusta dolcezza così come se usati a metà scala restituiscono il giusto contrasto. Se si unisce a ciò il fatto di aver girato il film in ARRI RAW  ecco che il risultato ottenuto è un frame sempre sospeso, mai definito nei dettagli ma integro nell’insieme: è un po’ il cammino di Hana alla ricerca della sua identità. Sola con se stessa non sa se è quello che appare – dettagli poco definiti – o se è quello che è – immagine integra. Ci ha colpito in questo viaggio in solitaria la tappa di Hana nel prendere contatto con la realtà – notturna – della città.

 

figura 3

Guardando questa inquadratura, che decreta l’estraneità di un corpo – e di una mente – all’innaturale natura dell’essere vergine giurata pensiamo a quel trionfo di solitudine che rappresenta il celebre dipinto di Edward Hopper, ’Night hawks’. Il confronto con Ionida, la figlia di Lila, una ragazza ‘occidentale’, libera di mostrare la propria femminilità (fa nuoto sincronizzato) stimola in lei la risalita degli istinti. Le scene della piscina, dei corpi che cercano di stare a galla con naturalezza, il clandestino incontro con il bagnino Bernhard, ci sembrano un’efficace metafora della lotta che Hana fa contro se stessa per accettare lo stato di privazione cui si è votata, e ci sembra anche che la semplicità rigorosa del tono fotografico sia stato lo strumento migliore per stanare quel tocco di magia che, a volte, si nasconde nella solitudine, quando arrivi ad accettare te stesso.

 

Vergine Giurata (2015)

di Laura Bispuri; Direttore della Fotografia: Vladan Radovic;

TECHNICAL SPECIFICATIONS

Aspect ratio: 2,35 : 1

Negative format: ARRI RAW

Camera: Arri ALEXA;

Lenses: Zeiss Distagon, Zeiss Planar.

Printed film format: 35 mm and DCP.

Il punto di vista del direttore della fotografia

 

Vladan Radovic

Nato a Sarajevo, dopo aver frequentato alla fine degli anni ‘90 il Centro Sperimentale di Cinematografia, inizia a lavorare come second e first assistant in numerosi film. Dal 2003 comincia la carriera da direttore della fotografia illuminando ‘Mater natura’ di M. Andrei. ‘L’ultimo terrestre’, ‘Appartamento ad Atene’, ‘Gli sfiorati’, ‘In treatment – la serie Tv italiana’, ‘Smetto quando voglio’ , ‘Anime nere’ sono solo alcuni dei lavori da lui realizzati.  Nel 2012 al Newport Beach Film Festival gli viene assegnato il premio Best Cinematography per il film ‘Appartamento ad Atene’ di R. Dipaola e nel 2015 riceve il Davide di Donatello miglior fotografia per il film ‘Anime nere’ di F. Munzi.

Firmi come DoP ‘Samir’, film d’esordio di Francesco Munzi, la storia realistica e tragica di un giovane albanese immigrato in Italia. Con lo stesso regista giri ‘Il resto della notte’, poi l’oscuro e malvagio ‘Anime nere’. Il primo film che fai con Laura Bispuri è lo short ‘Biondina’, e poi il suo lungometraggio d’esordio ‘Vergine giurata’. Accompagnare l’esordio di un regista ci sembra una grande responsabilità perché, volente o nolente, lo si indirizza verso un immaginario che diventerà parte del suo stile. Cosa ne pensi?

“Penso che la collaborazione con un regista nasce nei primi incontri dove uno scopre subito se si lavora sulla stessa lunghezza d’onda. Nel caso di Laura e Francesco siamo partiti subito con un vantaggio perché lavoravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Inevitabilmente un direttore della fotografia lascia una forte traccia personale nell’ estetica di un film, ma nel mio caso la ricerca parte dalla sceneggiatura e dal mio personale studio sull’estetica di un regista anche se si tratta di un esordiente: questo mi arricchisce molto artisticamente. Poi, se un regista quando vede le immagini sul grande schermo ti dice “questo è esattamente quello che mi sono immaginato io” per me è una grandissima soddisfazione”.

‘Vergine giurata’ è un’opera di impianto realistico che, inevitabilmente, ci riporta all’immaginario dei fratelli Dardenne. Come sei arrivato a definire il progetto visivo del film? Su quali ispirazioni, suggestioni hai concordato con Laura l’atmosfera, il look del film?

“Questo film è un classico esempio di quanto un regista incide nella parte visiva. Con Laura avevo già fatto il corto ‘La biondina’. Sia per il corto che per ‘Vergine giurata’ la critica ha citato l’immaginario dei fratelli Dardenne, ma sia lei che io non abbiamo mai preso a riferimento i loro film. Forse abbiamo parlato di altre cose pensando a loro. Se nel fare un film ti ispiri ad un’ opera filmica non arrivi mai ad un risultato soddisfacente. Questo è quello che penso io. Cerco sempre di usare la fotografia still e la pittura come ispirazioni. Ne parlo molto durante la preparazione. Poi, però, provo a dimenticarmi di tutte le suggestioni e cerco l’ispirazione dai personaggi del film che indubbiamente ti portano sempre sulla strada giusta”.

Semplificando, ci sembra che il film sia diviso in due atti fotografici. Il primo, caratterizzato da una generale scarsa nitidezza, che ci accompagna fino a circa un terzo del film e il secondo, visivamente più definito, che inizia con la fuga di Hana per arrivare fino alla fine. Abbiamo pensato che scalare, variare gradualmente la nitidezza fosse stato il tuo modo di aderire alla storia..

“In questo film ho seguito molto Hana (Alba Rohrwacher) fino a quando decide di andare via. E’ la prima volta che reagisce da sola, senza essere costretta da nessuno nelle sue scelte. Variare man mano la nitidezza è sicuramente stato un elemento importante nel seguire la storia ma nello stesso tempo stavamo molto attenti nell’ attenuare le differenze fra i due mondi di Vergine giurata per cercare di rendere simili presente e passato”.

immagine per il riquadro II

In genere i tuoi film – uno su tutti ‘Smetto quando voglio’ –  ma anche quelli di impianto realistico, sono vivacemente colorati. Vergine giurata inizia sulla neve tra i boschi, un colore saturo e poco brillante che sembra sottolineare l’incombere della natura. Il blu in trasparenza rivela la durezza della scena (il blu come colore bestiale ritorna in ‘Anime nere’…). In tutte le scene ambientate nella società patriarcale nel nord dell’Albania, i montanari sono reali e il magenta carico dei volti esprime il freddo di quella terra. Poi Milano. Come aderiscono i colori alla storia?

“Il colore per me è importante così come il grado di saturazione di un colore. Se un film non ha bisogno di colori saturi, io cerco di non metterli in scena e di far usare un trucco neutro sugli attori. Solo con una scena così desaturataposso poi intervenire ad alzare la saturazione nella fase di color correctionper arrivare ad avere particolari risultati realistici. In natura  il colore esiste sempre. La neve è stato un regalo per me  e Laura perché l’unico colore che era rimasto in Albania e che non riuscivamo a togliere dalla scena era il verde primaverile. Dopo pochi giorni di riprese svegliarsi e trovare tutto coperto di bianco era meraviglioso. Il freddo delle neve ha fatto venir fuori il magenta dai volti dei montanari e questo ha restituito naturalezza   alla montagna e all’immagine. Spostandoci a Milano, all’immagine accade quello che accade ad Hana che viene accolta. E così, anche se Milano non era molto più calda, ci è venuto spontaneo renderla più morbida ed accogliente. In particolare la casa di Lila”.

La scena in cui sono ritratti i corpi sommersi e goffi di una coppia di nuotatrici sincronizzate, ci sembra un’efficace metafora della lotta che Hana fa contro se stessa per accettare lo stato di privazione cui si è votata. Ci parli di questa scena?

“Laura ha voluto fortemente questa location, dove inizia la trasformazione di Hana. Abbiamo girato diversi momenti delle gare del nuoto sincronizzato, anche con le riprese subacquee cercando di esplorare il più possibile la libertà del corpo femminile. Abbiamo fatto un lungo piano sequenza seguendo le ragazze dallo spogliatoio fino alla fine della performance  sott’acqua. Per questa ripresa, con il mio capo squadra macchinisti Fabio Fumelli, abbiamo costruito una pedana nella piscina, che mi dava la possibilità di scendere nell’acqua dolcemente con la macchina da presa, per poi tuffarmi insieme alle nuotatrici. Ma come spesso succede, anche se è molto bella, al montaggio è stata tagliata”.

E una scena che ricordi con particolare affetto/effetto?

“Mi piace molto l’inquadratura lunghissima in cui Hana è in piscina alla fine della giornata e andando via passa accanto all’uomo che sta sganciando le corsie. Tra i due si scioglie la tensione mentre Hana continua a camminare verso l’uscita. Per lei è un momento particolare ma nella piscina la vita continua normalmente. Tutte queste situazioni con Laura erano preparate a metà e l’altra metà nasceva durante le prove girate che nella maggior parte dei casi venivano usate in montaggio, perché avevano quella naturalezza che veniva dall’ improvvisazione degli attori e dal movimento della macchina”.

Se è vero che un DoP sposando questo o quel progetto, assecondando questa o quella storia, non deve essere riconoscibile, sarà pur vero che ogni DoP ha una sua vocazione, un suo ‘fare luce’. Qual è il tuo stile?

“Cerco di nascondermi dietro la storia. Questo mi aiuta a diversificarmi tra un film e l’altro. Il mio stile è servire la storia con le atmosfere più adatte, che è la cosa più difficile”.

In questo film hai ricoperto anche il ruolo di camera operator. È una scelta che condiziona il lavoro da DoP? O viceversa?

Spesso lavoro con l’operatore alla macchina, ma succede che il regista mi chiede esplicitamente di stare in macchina. Questo ci dà più libertà nell’improvvisare. Poi, se fra operatore e regista nasce l’alchimia giusta posso dedicarmi soltanto al movimento della luce”.

Per questo film ti sei servito di novità tecnico/stilistiche che prima non avevi mai utilizzato?

“È il primo film che ho girato in ARRI RAW e sarà difficile tornare indietro! Il file del segnale digitale nasce campionando le informazioni luminose che si formano sul sensore. Questo processo può avvenire in diversi modi. Il file RAW è sostanzialmente il file più prossimo a quello che accade sul sensore, una sorta di negativo come capita con la pellicola quando viene sviluppata. Infatti, un’immagine grezza – RAW, dal momento che contiene il massimo delle informazioni registrabili da una parte, riproducibili dall’altra, va ‘sviluppata’ trattata affinché il flat delle alte e delle basse luci possa essere modulato in post-produzione per raggiungere la massima fedeltà dei contrasti e dei dettagli della scena. (NdR: Unico inconveniente il file RAW a parità di aspect ratio e pixel in termini di byte pesa il triplo rispetto ad un file ProRes).

(A cura di Alessandro Bernabucci – Chief Executive  – Shot Academy – Formazione Professionale per il Cinema;

collaborazione di Stefano Di Leo – Education Manager –  Shot Academy – Formazione Professionale per il Cinema)

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