KEY LIGHT – Luce e Cinema III

E’ online il terzo articolo della rubrica curata da SHOT Academy  ‘Key Light: Luce e Cinema’ pubblicato sulla rivista ‘Luce & Design‘.

‘THE ARTIST’
ovvero
la luce in Bianco e Nero.

Secondo il nostro parere, il primo accorato contributo di un direttore della fotografia nella storia va rintracciato nel cinema espressionista tedesco degli anni ’20. Prima di allora, escluse alcune eccezioni, il cinema era visivamente indifferente. Se pensiamo a film come ‘Das Cabinet des Dr. Caligari’ di R. Wiene‘Metropolis’ di F. Lang, ‘M – Eine Stadt sucht einen Mörder’ sempre di F. Lang, oppure ‘Nosferatueine Symphonie des Grauens’ di F. Murnau1 non possiamo non riconoscere la marca fotografica che ha segnato un’epoca e dunque il lavoro di gente come Fritz Arno, Guido Seeber, Carl Hoffman, Karl Freund. Il B/W delle sagome distorte, delle ombre che si stagliano sullo sfondo, dei volti illuminati in primissimo piano con luce caratterizzante il bene o il male, del contrasto esasperato, della macchina da presa non più antropomorfa sono segni e simboli fotografici che si fanno materia. Gli stessi che saranno importati dall’industria cinematografica statunitense che li farà propri con il genere noir, che tanto deve al cinema espressionista.

Continua il viaggio di “Key Light” nella luce del cinema. Stavolta parliamo di ‘The Artist’ il film in B/W di M. Hazanavicius del 2011, vincitore di 5 premi Oscar, fra cui Best Picture e Best Actor, e nomination Best Cinematography per il DoP G. Schiffman2

Il film di Hazanavicius è uno sguardo contemporaneamente malinconico e gaio di quello che è stato il primo cinema industriale. E la luce di Schiffman è inevitabilmente un B/W patinato, che spesso, come la musica, serve ad esprimere anche i sentimenti degli attori. La parabola di George Valentin, il personaggio interpretato da J. Dujardin, è il segno dei tempi che cambiano: l’avvento del sonoro manda in frantumi la carriera dell’attore. Il divo del cinema sprofonda nel baratro dopo il fallimento del film che si è ostinato a produrre muto e con soldi propri. Il contemporaneo successo della sua amica Peppy Miller interpretato da B. Bejo, nuova stella del cinema sonoro, lo portano a tentare il suicidio. Lo salverà dalla morte e dal fallimento proprio lei, che costringe il produttore della major a realizzare con loro due come protagonisti il musical ‘Scintilla d’amore’. Un musical: proprio il genere cinematografico che nasce con l’avvento del sonoro. E, guarda caso, l’Academy istituisce il premio Oscar nel 1929, anno di ‘The jazz singer’ il primo film sonoro della storia del Cinema. Va detto anche che dal 1939 fino al 1967 l’Academy contemplava due Oscar distinti per il best cinematography: uno per il colore e uno per il B/W. Da allora, l’unico film in B/W a ricevere la statuetta come miglior fotografia è stato ‘Schindler’s list’ di S. Spielberg, DoP J. Kaminski.

Non volevamo fare un vecchio film, volevamo fare un nuovo film che ricordasse un vecchio film’, così dichiara Schiffman. Il direttore della fotografia, infatti, ha, in parte, fatto un lavoro filologico. Parlando di fotografia va ricordato che in senso cinematografico il termine non indica solo ‘la luce’ ma anche tutto quello che concerne l’inquadratura: dagli obiettivi alla posizione macchina, dall’angolazione alla scelta delle distanze, dal colore di un costume o di una scena al trucco di un attore. E in questo film Schiffman – prima ancora che sulla luce – ha fatto una ricerca stilistica sugli obiettivi.

Si tratta dei Panavision Super Speed, la serie pensata a metà anni ’70 dalla casa americana per favorire riprese in condizioni di scarsa luminosità. In quegli anni il cinema industriale americano cede il passo a quel movimento che i critici chiamano la ‘new hollywood’ che sempre più, in senso lato, si allontana dagli studios per girare dal ‘vero’ storie ‘vere’. E, più o meno, girati con luce naturale3. Il che, spesso, è un problema se il diaframma non ti permette aperture ‘veloci’, speed per l’appunto, ossia molto aperte. La conseguenza di un diaframma tutto aperto è la relativa diminuita profondità di campo e la mancanza di incisione nei dettagli. Aggiungiamoci che per il film questi obiettivi sono stai privati del trattamento anti-riflesso e l’immagine, così, risulta ancora più morbida, come se fosse filtrata. Va da sé che usando questi obiettivi anche la luce deve essere pensata soflight e non too sharp o too clean. Schiffman, con estremo rigore, per ammorbidire ancora di più l’immagine, utilizza – insieme agli obiettivi della Panavision – i filtri glimmerglass, che, oltre ad abbattere il contrasto, restituiscono sulle alte luci dei bagliori.

‘The Artist’ è stato girato con pellicola color negative Kodak 35 mm 5219 500 ISO (tra poco ci soffermiamo sul perché è stato girato a colori); in fase di ripresa il frame nativo ha un aspect ratio4        1,78 : 1, mentre in post-production il frame è stato portato a 1,33 : 1, square frame tipico del cinema muto. Dichiara Schiffman: ‘Inquadrare con il formato silent è molto bello se fai dei primi piani, ma allo stesso tempo non siamo abituati a girare in uno spazio così ridotto’. Inoltre, per aumentare la sensazione di ‘cinema muto’, il film è stato girato con un frame rate5 di 22 fps per rendere quasi subliminale un senso di accelerazione dei movimenti, come accade nel fruire oggi un film girato all’epoca del muto.  I film qui tenuti presente come stimolo per arrivare a stabilire l’atmosfera sono stati non solo i silent movie, come ‘Sunrise’ e ‘City girl’ – entrambi di F. Murnau – ma anche alcuni classici degli anni ’40 e ’50, quali ‘Singing in the rain’ di S. Donen, ‘Sunset boulevard’ di B. Wilder, i film con F. Astaire e G. Rogers e necessariamente ‘Citizen Kane’ di O. Welles. La scena della proiezione del film sonoro che organizza il produttore è dichiaratamente una citazione del film di Welles. Senza dimenticare che il personaggio di G. Valentin è un calco di Douglas Fairbanks.

Tagliamo il film in due. La prima parte è tutta piegata sul successo del divo del cinema muto. Qui Schiffman ha lavorato in high key light, come la maggior parte dei musical anni ’40, e con abbondante profondità di campo che rende tutto più nitido. La seconda parte, raccontata con un punto di vista più dal basso, atto a dilatare il senso ‘tragico’ della caduta, del declino, narra il fallimento del divo e la fine del cinema muto. In tal senso la scena dell’incontro tra i due sulle scale, con lei in alto e lui in basso, è significativa. Fa da prologo alla definitiva caduta con il tentato suicidio e le fiamme che bruciano, oltre alla casa, i suoi film.

figura b

 

Tutta questa seconda parte del film è lavorata con una luce più ‘noir’. Schiffman dichiara che nella scena in cui Valentin trova i sui beni nascosti in una stanza nella casa di Peppy, ha fatto in modo che risultassero bianchi solo i lenzuoli che coprivano le cose ed ha posizionato una serie di bandiere6 per riempire tutto con molte ombre.

 the artist picture 3

Una considerazione: un film B/W è la riproduzione della realtà in una scala di grigi. Si crea una sorta di discromia dei colori. Con la stessa luce incidente, ma a parità di saturazione, in una scala dal massimo nero al massimo bianco, la riproduzione in B/W dei colori primari RGB risulta organizzata in questo ordine: BRG.

figura dInoltre, sempre da un massimo nero ad un massimo bianco, la scala dei grigi progredisce da ciò che è meno luminoso a ciò che più luminoso (sarebbe più appropriato dire brillante).

Prima di decidere con quale pellicola girare, Schiffman ha fatto dei test con la 200 ISO B/W, ma la bassa sensibilità costringeva ad un carico di luce troppo ingombrante per ottenere i grigi desiderati. Usando la color negative 500 ISO il DoP si è accorto che – nonostante la minor quantità di luce – si otteneva una maggiore tonalità di grigi e con una pastosità più idonea ad un’immagine softnet. La grana della pellicola, infatti, aumenta la texture dell’immagine e azzera quell’effetto iper-realistico tipico, in certi casi, dell’immagine digitale. La ricerca è andata oltre anche sul fronte degli apparecchi di illuminazione. Molte scene del film sono un film nel film ed è stato necessario avere in scena pezzi funzionanti dell’epoca: uno su tutti il Kliegl light della Universal Electric Stage Lighting Company, uno degli apparecchi più usati negli anni ’20. Si tratta di un open face a doppia lampada ad arco voltaico che si usava orizzontale per illuminare di solito la scenografia.

klieg light

E poi tutti gli apparecchi di illuminazione della Mole & Richardson7, ancora oggi uno dei leader mondiali del lighting equipment.

La luce in bianco e nero di ‘The artist’ mostra tutta quella magia che per anni ha fatto del cinema il territorio del lieto fine. E  la scena finale del tip tap è una rinnovata felicità, illuminata con gusto contemporaneo e senza i fasti dei musical americani tutto luci e niente ombre.

 

a cura di Alessandro Bernabucci

 

THE ARTIST (2011)

By: Michel Hazanavicius         

Director of photography: Guillaume Schiffman

Caratteristiche tecniche

Aspect ratio: 1,33 : 1

Negative format: film color negative Kodak Vision3 500T 5219

Camera: Arriflex 435

Lenses: Panavision Super Speed and Lightweight lenses

Cinematographic Process: super 35 mm. (source format); Digital Intermediate 2K (master format)

Printed film format: 35 mm spherical and DCP

Per approfondimenti:

 http://www.drewmoe.com/panavision.shtml

 http://www.panavision.com/products/legacy-primes 

 http://www.tiffen.com/Glimmerglass.htm 

http://mole.com 

 http://weinsteinco.com/sites/the-artist/ 

[1] ‘Sunrise: A Song of Two Humans’ proprio di F. Murnau è il primo Best Picture della storia del Cinema e anche il primo Best Cinematography, statuetta condivisa dai due direttori della fotografia C. Roscher e K. Struss.?
[2] Guillaume Schiffman è figlio della sceneggiatrice francese Suzanne Schiffman, che ha lavorato con F. Truffaut, J. Godard e J. Rivette.?
[3] A titolo esemplificativo potremmo citare tutta la filmografia di J. Cassavetes; uno su tutti ‘Faces’ del 1968. Ma pensiamo anche a film come ‘French connection’ di W. Friedkin, DoP O. Roizman, nomination Best Cinematography 1972 e ‘One Flew Over the Cuckoo’s Nest’ di M. Forman, DoP Haskell Wexler, nomination Best Cinematogrphy 1976. .?
[4] L’aspect ratio indica la proporzione fra la base e l’altezza del fotogramma. Per convenzione con 1 si indica sempre l’altezza, mentre l’altro valore indica quante volte la base è più grande dell’altezza. .?
[5] Il frame rate indica la cadenza di ripresa, ossia il numero di fotogrammi impressionati in un secondo (fps). La cadenza standard oggi è 24 fps. Prima dell’avvento del sonoro la cadenza di ripresa era di 16 fps. .?
[6] Per impedire ad una luce di illuminare zone indesiderate e sagomare così l’illuminazione scenica si posizionano davanti al fascio di luce nella maniera desiderata dei panni neri con un anima di metallo. Le cosiddette bandiere esistono di diverse misure.?
[7] L’azienda fu fondata nel 1927 dall’immigrato italiano Pietro Mulè, un siciliano che cambiò il nome in Peter Mole. La Mole & Richardson ebbe un successo clamoroso con l’invenzione nel 1937 del Solar Spot, il primo proiettore con la lente di Fresnel.?

 

 

Il punto di vista del Direttore della Fotografia

Gianfilippo Corticelli

Gianfilippo Corticelli

Gianfilippo Corticelli è uno dei più affermati direttori della fotografia del nostro cinema. Sua la fotografia di tutti i film di Sergio Castellitto e di molti film di Ferzan Ozpetek. Ha appena finito le riprese del secondo film da regista di Kim Rossi Stuart. Per il film ‘Third person’ Paul Haggis lo ha voluto al suo fianco. Possiamo tranquillamente dire che è stato il primo in Italia a girare un film con tecnologia completamente digitale.

The artist’ è stato candidato come Best Cinematography. Ci dici la tua? Quali sono secondo te i motivi per cui Schiffman ha fatto un buon lavoro? 

“Mi è piaciuto moltissimo. Mi ha colpito il coraggio di fare un film muto in bianco e nero ai giorni nostri. Una bella scommessa e per altro vinta. Le scelte fotografiche sono molto appropriate, secondo me. Il bianco e nero è sempre molto affascinante e mi è piaciuto come il direttore della fotografia ha interpretato il film. ‘The Artist’ di fatto è una commedia e il bianco e nero è molto morbido, una luce senza contrasti ‘cattivi’, tipici di un cinema ‘datato’. Si capisce che ha voluto evitare di imitare una luce da classico film in bianco e nero. Il look del film segue la direzione del film. Lo scenografo di ‘Third person’ (NdR – Laurence Bennett, lo stesso di ‘The Artist’) mi raccontava che per gli standard hollywoodiani il film era una produzione minore, a basso costo, il regista europeo, una co-produzione Francia – USA, sei settimane di riprese. Nessuno pensava che potesse essere il film che è stato. Ma un loro film a basso costo per i nostri standard è sempre un altro pianeta”.

Il film è stato girato con pellicola a colori e poi lavorato in B/W. Perchè non scegliere di girare direttamente in B/W? 

“Mi è capitato quando c’era da chiedersi se fare un film in bianco e nero o a colori di decidere con che cosa girare, se con pellicola colore o bianco e nero. Con l’avvento del DI (NdR: con Digital Intermediate si indica la fase di post-produzione che di fatto trasforma il film negative in file DPX – Digital Picture Exchange ) la tendenza che ho sposato è quella di girare sempre con un negativo a colori perchè tecnologicamente più avanzato. L’ultima pellicola bianco e nero prodotta come ricerca e sviluppo è roba in pratica dei primi anni ‘90. Le pellicole a colori invece sono state sempre prodotte e sempre con maggiori novità tecnologiche che le hanno rese più performanti, a livello di grana, di latitudine di posa, di contrasto. Questo ti permette di avere un ottimo supporto di base per le successive lavorazioni in post. Ti permette di spaziare in qualsiasi direzione e anche di ‘sporcare’ il negativo e di andare incontro alla resa delle vecchie pellicole bianco e nero senza però quei bei ‘contrastoni’, la grana, l’esposizione secca. Affascinanti come look ma non sempre funzionali a quello che stavi facendo. E un film come ‘The Artist’ non aveva certo bisogno di un impatto visivo così duro”.

Paul Haggis, premio Oscar Best Original Screenplay per ‘Crash’, dopo aver visto ‘Non ti muovere’ ti ha voluto conoscere e così poi hai fatto la fotografia di ‘Third person’. Proprio perchè Haggis ha deciso di lavorare con te, hai fotografato il film sempre secondo le tue corde oppure hai cambiato qualcosa del tuo modo di ‘fare luce’? 

“Come luce ho fatto sempre il mio lavoro. Non ho una luce per questo o quel regista. Ognuno ha la sua sensibilità, il suo stile, il suo modo di lavorare. Io ho il mio e ogni volta sposo il progetto per cui decido di lavorare. Di fatto sarebbe impossibile fare sempre la stessa luce, perchè la storia inevitabilmente ti porta in un modo o nell’altro a variare il tuo modo di affrontare il lavoro e verso un certo tipo di immagine. Ho solo cercato di seguire quella che era la storia, il film, l’idea che insieme al regista avevamo elaborato. La grossa differenza fra una produzione americana e una italiana è il set. Hanno un diverso modo di lavorare. Loro sono molto più organizzati di noi. Noi siamo molto più ‘caciaroni’ in senso buono. Ci piace improvvisare. Andiamo sul set e diciamo ‘questa inquadratura la potremmo fare così, però potremmo farla anche così’ e via di seguito. Si decide quasi sul momento come girare. Loro, per l’assoluto rispetto del budget a disposizione, non vogliono sorprese, non vogliono sprecare nemmeno un minuto sul set. Sanno già quale problema si presenterà, perché quel problema lo hanno già analizzato e risolto. C’è un grosso lavoro di pre-produzione e organizzazione, prima di iniziare le riprese e durante la lavorazione: riunioni su riunioni in cui partecipano tutti per qualsiasi cosa. Il set si sa è continuamente un imprevisto, ma loro hanno la capacità di prevedere gli imprevisti. E in questa filosofia investono molto di più nella pre-produzione rispetto a quanto facciamo noi che finiamo puntualmente in straordinario”.

Spesso lavori con Castellitto e con Ozpetek. Qual è la luce di Corticelli per i film di Castellitto e per i film di Ozpetek? C’è uno stile ‘Corticelli’? 

“Penso che dentro ognuno di noi, nella propria cultura visiva di quello che considera bello o brutto, proponibile o improponibile, ci sia il proprio stile. Per una serie di motivi ci sono cose che ad uno piacciono e ad un altro non piacciono. E’ una cosa molto personale e soggettiva. Di conseguenza nello stile di uno non ci saranno mai elementi che compariranno nello stile di un altro. Il direttore della fotografia lavora per servire il regista e quindi il film: se il regista ti chiede una cosa tu cerchi di dargliela nel migliore dei modi e cerchi di andargli dietro. Ferzan e Sergio hanno due stili molto diversi, anche visivamente. Ferzan ama le cose molto colorate, i colori saturi e non sopporta di vedere il film desaturato. Castellitto è più poliedrico. Cerca la storia di ogni scena. Nel senso che ci sono scene che gli piacciono in un modo e altre in un altro, per questo è meno catalogabile”.

In tempi non sospetti tu sei stato, se non il primo, uno dei primi a lavorare in Italia in digitale. Pensiamo a ‘Paz’ del 2002 di Renato De Maria, girato con una Sony DVCam. Fare un confronto fra pellicola e digitale ormai, forse, è una pratica archiviata… 

Paz fu un esperimento quasi per caso nel senso che il film doveva essere girato in pellicola 16 mm. Il budget si ridusse drammaticamente e allora Renato propose di girare in digitale. Il film è una storia ricavata dai fumetti e quindi ci può stare, disse. Feci una serie di provini con questa macchina, che non era nemmeno di classe broadcast (NdR: i mezzi tecnici televisivi vengono classificati in base alle loro caratteristiche tecniche di risoluzione e formato; la classe broadcast è la classe più alta). Dopo vari provini per vedere il risultato finale su pellicola positiva il look che ottenemmo ci piacque. Innamorati dell’immagine della telecamera, anche se il produttore poi trovò i soldi per girare in pellicola, sia Renato che io decidemmo di andare avanti con il digitale. Quelli della Kodak stessa, finito il film, vennero da me, preoccupati, a chiedere come mi ero trovato. La rivoluzione ormai era in atto..”.

E’ cambiato il tuo modo di fotografare, la tua luce con il D-Cinema? 

“Sicuramente è cambiata la quantità di luce. Il carico in kW per un film in digitale è assolutamente inferiore rispetto a quanta luce serviva con la pellicola. Una 500 ASA era sempre meglio esporla a 400 e questo ti toglieva uno stop di luce. Oggi la sensibilità delle macchine digitali è 800, ovvero uno stop più sensibile rispetto a quella che, per certi versi, era la pellicola più sensibile. Significa meno mezzi e minori ingombri. Significa essere più veloci. Questa è la sola differenza secondo me. Il modo di illuminare, di interpretare con la luce una storia non è cambiato”.

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