KEY LIGHT – Luce e Cinema I

KEY LIGHT – Luce e Cinema I

E’ online il primo articolo della rubrica ‘Key Light: Luce e Cinema’  pubblicato sulla rivista ‘Luce & Design‘.

Attraverso i Best Cinematography e le nomination dell’Academy faremo un viaggio nella luce e nello stile dei direttori della fotografia.

‘GRAVITY’
ovvero
la luce dello spazio (interiore)

“Usi qualsiasi cosa, usi il sole e la terra.”
Così urla Kowalski (G. Clooney) per aiutare Stone (S. Bullock) mentre vaga nello spazio dopo che lo Shuttle è andato distrutto. Sole e Terra: ricordiamoci queste parole:

Il viaggio di Key Light inizia con il film Best Cinematography 2014.

Emmanuel Lubezki, 50 anni, di nuovo Oscar Best Cinematography nell’edizione 2015 con il film ‘Birdman di A. Inarritu, ha iniziato più di venti anni fa, con il film ‘Como agua para chocolate’ di A. Arau.

Gravity’, in nome dell’assenza di fisicità, piega tutto il suo racconto verso il peso. Corpi che cadono, che cercano di atterrare, di tenersi aggrappati a qualcosa sospesi nello spazio: l’insostenibile gravità dell’essere.

Cuaron ama girare dei long take. Il film, infatti, inizia proprio con un long take di quasi 16 minuti. E grazie al sensazionale lavoro del supervisore VFX (visual effects) Tim Webber della , ‘Gravity’ è composto da sole 156 inquadrature (un film mediamente è 2000 cuts). L’idea iniziale di girare il film in un Vomit Comite è stata scartata: ogni take si sarebbe potuto girare per pochi minuti. Anche il classico blue back e il tracking action degli attori è stato scartato. Nessun ‘realismo’. Cuaron ha guardato e riguardato molti filmati della Nasa girati nello spazio per capire una location impraticabile: l’orbita terrestre fra i 160 e i 2000 km di altitudine. E studiando i filmati si capisce straordinariamente una cosa: nell’orbita terrestre la fonte di luce è la Terra. E Lubezki ha scientificamente restituito questa luce ‘capovolta’. Lubezki ha lavorato su due identità fotografiche: le scene nello spazio (il conscio) e le scene dentro la navicella (l’inconscio).

Il film, prima delle riprese, è stato interamente realizzato in Computer-Generated Imagery (CGI). Così come il regista ha costruito l’azione di ogni scena in CGI, anche Lubezki, insieme ai tecnici dei VFX, ha impostato la luce di ogni scena al computer prima ancora che sul set. Ma poi, come realizzare ‘live action’ il lavoro fatto in CGI? Come far volteggiare gli attori e azzerare la forza di gravità e nello stesso tempo come far muovere la luce ‘Terra’ e il raggio ‘Sole’ assecondando il movimento dell’attore ogni volta che ‘sballava’ nello spazio?

Gravity è un film sperimentale. Ha indicato nuove strade. Ed il film è un trionfo di tecnologia. Molte delle soluzioni non erano mai state utilizzate per realizzare un film. Due le novità: la robotica e la ‘Light box’.

La camera è montata su un robot che si muove in base a movimenti prestabiliti da un software (motion control). Il braccio su cui è montata la camera è un adattamento dei robot usati dall’industria automobilistica. L’Iris System è stato progettato dalla Bot & Dolly.

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Il ‘dolly’ incriminato può muoversi a 360° su tre assi in testa e nello stesso tempo sempre a 360° su tre assi come braccio. Anche gli attori, all’interno della ‘Light box’, inseriti in un cestello (rig) meccanico, potevano ruotare fino a 45° in tutte le direzioni. Il contemporaneo e combinato movimento della camera che ruota su 3 assi, e che avanza o indietreggia, e quello degli attori che ruotano nel cestello, sono il fantastico risultato delle scene nello spazio. Questa drammatizzazione dei movimenti degli attori, ha però posto un problema: come restituire una luce credibile dal momento che gli attori venivano continuamente e velocemente sballottati? La soluzione di Lubezki è stata la ‘Light box’.

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Una struttura 6m per 3m con la quarta parete aperta dove far passare l’Iris System. La ‘Light box’ sono 196 pannelli 60 cm per 60 cm ognuno dei quali monta 4000 Led. Ogni singolo pannello poteva essere gestito attraverso un software. La ‘Light box’ così diventa uno schermo che proietta sugli attori tutta la luce ottenuta con le immagini in continuo movimento della Terra e del Sole create in CGI. Le immagini dinamiche che venivano ‘trasmesse’ dalla ‘Light box’ producevano una luce cinetica ‘mappata’ che avvolgeva gli attori. Per i tagli violenti, ossia il raggio Sole che va e viene sui volti degli attori mentre galleggiano nello spazio, Lubezki ha pensato di ricreare la Day Light con un corpo illuminante particolare, montato su una testata mobile controllata da un camera operator. Far ‘inquadrare’ la luce del Sole da un camera operator: che intuizione! Il ROBIN 600E Spot è una lampada a scarica di 575 Watt a 7500 K, capace di generare un fascio di luce molto concentrato dai 2° ai 56°.

Per un DoP (director of photography) evitare riflessi su riflessi indesiderati è impegnativo quanto dover illuminare un intero set. Per questo motivo gli attori non potevano montare la visiera del casco. È stato più semplice ricreare le visiere in CGI così come tutti i desiderati riflessi. È uno degli aspetti di questo nuovo ‘fotografare’. Il collaboratore principale del DoP sul set è il Gaffer, colui che allestisce il ‘set up’ luci in base alle indicazioni ricevute. Con l’avvento della tecnologia digitale esiste anche il digital gaffer. Lubezki si è avvalso della collaborazione di un CGI lighting supervisor: altri non è che un CGI operator. C’è chi la chiama ‘algoritmography’… Il lavoro in tandem è indicativo nella scena dell’Africa, quando gli attori nella loro passeggiata orbitale passano sopra il globo all’altezza del Sahara con il Sole che sta per sorgere. Lubezki on set ha pervaso gli attori di una luce calda e il CGI operator ha mappato il movimento delle immagini della ‘Light box’ con il relativo effetto dalla Terra. Le immagini della ‘Light box’ sono le stesse che in post-produzione vengono integrate al ‘live action’: il risultato è incantevole.

La marca stilistica della fotografia dentro la navicella, invece, è una Sant’Elena dello sguardo. Tutta l’atmosfera è in soft light. La luce lambisce delicatamente i personaggi. Non più fuori, nello spazio, ma all’interno dello spazio del personaggio. Come la dolce luce nella scena in cui Stone, dopo tanto errare per lo spazio, riesce ad entrare nel modulo spaziale cinese e si toglie la tuta. I suoi gesti assumono il valore di un urlo di liberazione per poi perdersi in un riposo fetale, gravitando intorno a se stessa e la backlight del raggio Sole dona linfa e respiro.

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In questo caso Lubezki, per ricalcare il Sole, ha usato l’ Alpha 4K HMI della K5600 Lighting, un corpo illuminante molto compatto e molto potente. E, soprattutto, facilmente gestibile. Anche l’onirica scena del ritorno di Kowalski è un dolce illuminare nell’indeterminato passaggio luminoso da freddo a caldo. Stone sembra cedere alla morte. Ma è il momento della ritrovata forza interiore. ‘È ora di tornare a casa’ sussurra il sognato Kowalski. Il plot da questo punto vira verso Terra. Verso la vita. La dominante blu è un freddo passionale, è un’energia rigeneratrice: il modulo della navicella si separa dalla nave e inizia, così, il ritorno. Il film chiude con la ritrovata Terra, per interposto passaggio in acqua. Rompere le acque per (ri)nascere. E, finalmente, toccare Terra. La scena è stata filmata in pellicola 65 mm. Lubezki così ha aumentato il senso di grandezza di questa conquista finale.
Sole e Terra. La luce è solo un modo di vedere le cose. E Lubezki ha fatto precipitare questa idea verso l’alto.

a cura di Alessandro Bernabucci

 

 

GRAVITY (2013)

by: Alfonso Cuaron;

Director of photography: Emmanuel Lubezki

TECHNICAL SPECIFICATIONS

Aspect Ratio: 2.40:1

Negative format: Digital capture Codex and 65mm

Camera: Arri Alexa Classic, Arriflex 765

Lenses: Arri Master Prime, Panavision Primo

Film Negative: Kodak Vision3 500T 5219

Cinematographic Process: ARRIRAW 2.8K (source format) Arri 765 (source format) Digital Intermediate (2K – master format) Stereoscopic Conversion per proiezione 3D.

 

Per approfondimenti:

http://www.theasc.com/ac_magazine/November2013/Gravity/page1.php

http://www.fxguide.com/featured/gravity/

 

Il punto di vista del Direttore della Fotografia

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Luciano Tovoli

Luciano Tovoli è un direttore della fotografia che ha lavorato molto per il cinema d’autore italiano, ad esempio con Franco Brusati nel 1974 (Pane e Cioccolata) o Marco Ferreri nel 1976 (L’ultima donna), con Valerio Zurlini (Il Deserto dei Tartari, 1976) oltre che per alcuni dei classici di Michelangelo Antonioni e Dario Argento, avviando poi una assidua collaborazione con Ettore Scola per diversi film (Splendor, 1988, Che ora è?, 1989, Il viaggio di Capitan Fracassa, 1991, Che strano chiamarsi Federico, 2013) e con altri registi come Barbet Schroeder e Francis Veber.  

Il direttore della fotografia, mettendo a disposizione della storia la luce più idonea per quel racconto, forse, non dovrebbe avere una marca stilistica riconoscibile. Forse. Il tuo stile, la tua luce come si può riassumere?
“Mi diverto sempre molto a cercare di “tradire” i registi cercando di portare al film qualcosa di inatteso, di imprevisto e che conduca il film in luminosi o tenebrosi territori oltreconfine rispetto a quanto descritto nella sceneggiatura. La mia luce si riassume nei miei film che sono decine e decine e mi è impossibile quindi farne una sintesi. Perché fossilizzarsi in uno stile fotografico, meglio cinematografico, da ripetere tipo ricetta di cucina anche se estremamente apprezzata e premiata? Quello che conta per me è non annoiarmi sul set e per non annoiarmi mi devo allontanare dal terreno che già conosco scandagliando nuove possibilità o almeno quelle che la mia cultura, il mio sentimento ed a volte il mio variabile umore giornaliero mi indicano come esistenti ma non ancora esplorate. I grandi registi che ho avuto la  fortuna di incontrare questo lo hanno capito dalla prima stretta di mano e mi hanno SEMPRE lasciato le briglie sciolte concedendomi d’emblée il più straordinario dei regali. Essendo  SEMPRE scelto dal regista e  RARISSIMAMENTE dalla produzione, mi considero il primo alleato e “complice” del  regista punto e basta. Rispetto naturalmente moltissimo gli sforzi di un produttore ma so che per consegnargli in tutta onestà  e lealtà “l’oggetto film” realizzato artigianalmente al meglio (delle mie modeste possibilità) devo purtroppo a volte scontentarlo. È  sempre stato così e non posso farci niente”.

Parliamo di ‘Gravity’. Ci dici la tua?
“Premetto che ammiro moltissimo l’ondata messicana che ha sommerso Hollywood in questi ultimi anni portando una straordinaria vitalità laddove ce n’era un grande bisogno.  Ricordo di aver visto “Amores perros” di Alejandro Inarritu  in un cinema “Art et essai “ di Los Angeles e di averlo apprezzato moltissimo con la splendida fotografia di Rodrigo Prieto che sbarcava per la prima volta nel panorama internazionale. Il suo connazionale Emmanuel “Chivo” Lubezky collaborando con Alfonso Cuaron intanto cominciava a collezionare nominations all’Oscar  arrivando rapidamente con altri film alla bella cifra di 7 nominations ! Quindi si parla di un autore della cinematografia di primissimo ordine che ha saputo dare il meglio con Cuaron appunto, con un regista interessantissimo e problematico come Terrence Malick  in “Tree of life” sino ad Alejandro Gonzales Inarritu con il recente ”Birdman”, che gli ha dato il secondo Oscar. Questa è l’apprezzabilissima “mexican nouvelle vague” che sta contribuendo a dare forza alla cinematografia in generale. Dunque “Gravity” . E’ un film su commissione per impiegare due icone come Bullock e Clooney mettendoli nelle mani degli specialisti del CGI. Che c’entra l’Oscar per la cinematografia? Proprio un bel niente, penso. Dovrebbero infatti decidersi all’Academy a creare un Oscar importante specifico per i film che massicciamente utilizzano immagini CGI ! Incredibilmente invece – ma non è la prima volta nella storia della mitica statuetta – i due film per i quali “Chivo” ha ricevuto gli Oscar sono di gran lunga i meno fotograficamente interessanti che il bravissimo Lubezki ha “co-realizzato” con il regista. Sì, perché considero il cinematographer un co-realizzatore.  Ma questa è un’altra storia…”.  

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