KEY LIGHT – Luce e Cinema II

E’ online il secondo articolo della rubrica ‘Key Light: Luce e Cinema’ pubblicato sulla rivista ‘Luce & Design‘.

‘DJANGO’
ovvero
il colore del razzismo.

Che colore ha la pelle? Dipende dalla luce. E da come guardi il mondo, ovviamente.
Prosegue il viaggio di ‘Key Light’ nella luce del cinema con il film di Quentin Tarantino, fotografato dal già 3 volte Best Cinematography Robert Richardson (Django Unchained ha ottenuto la nomination Best Cinematography nel 2013).
Prendiamo un colore, un qualsiasi colore. Ora mettiamo sullo sfondo un bianco. Quel colore apparirà inevitabilmente più scuro di quello che è. Ma se mettiamo sullo fondo un nero, quel colore apparirà più chiaro di quello che è. Un nigger (il dispregiativo per dire black man) è ancora più ‘negro’ se sullo sfondo c’è il ‘bianco’. E così è Django (interpretato da Jamie Foxx, premio Oscar 2005 per il film ‘Ray’). Fotograficamente la lotta fra il bene e il male – se mai esistesse il bene e il male o non piuttosto solo la fortuna di essere umani – in Django è didascalicamente – senza nota critica – e semplicemente la lotta fra shadow ebrightness. In una parola: contrasto. Tarantino ha imposto che il film venisse realizzato in pellicola.
E in anamorfico1 aspect ratio 2,40:1.
Il regista e il direttore della fotografia hanno discusso molto sul look del film e molto hanno attinto dal nostrano spaghetti western. Per esempio i film di S. Corbucci e  di S. Leone. Ma non solo. Per l’uso dello zoom, anche L. Fulci e L. Bava sono serviti di ispirazione. Per una serie di ragioni, lavorare in anamorfico non è semplice. Fra le altre, la rapidità degli obiettivi, tecnicismo per indicare il valore della luminosità. Gli zoom sferici già di per sé non sono mai molto luminosi, in più per gli anamorfici, quando non sono zoom molto spinti, significa attestare l’apertura massima a T 3.5. Gli zoom Primo della Panavision usati nel film, come nel caso del wide angle AWZ2 con focale da 40 a 80 mm. l’apertura massima T stop è 3.5.

Nel caso dell’ ALZ11 48 – 550 mm. la luminosità è T stop 4.5. La pellicola usata è stata la Kodak Vision3 200T 5213 e 500T 5219. Quest’ultima tirata di 1 stop2 , come nel caso della scena al chiaro di luna dell’attacco dei cowboy incappucciati alla Ku Klux Klan maniera.
Ian Kincaid, lo storico Gaffer3 di Richardson.
“Come si illumina un paesaggio così vasto quasi fino ad un miglio e oltre di campo inquadrato con un diaframma T4.5 o T5.6 di notte? Non c’è luce là e non ci doveva essere. L’unica luce giustificata era l’atmosfera al chiaro di luna.” Richardson sceglie di esporre non a 500 ISO ma a 1000 ISO per guadagnare già uno stop di luminosità. La pellicola così tirata, unitamente all’uso degli obiettivi anamorfici, da vocabolario visivo, restituisce un’immagine ancora più morbida. Poi sceglie di illuminare la landa notturna come un palcoscenico monodirezionato. La key light è l’effetto luna dall’alto: il cinematographer ha fatto montare su due gru issate a quasi 30 metri due telai 12 x 12 m. per far lavorare in totale ben 24 6K Spacelight con tc 3200K convertiti con dei silent grid cloth Gelfab Full Blue4.

immagine 2

Per consentire, poi, al regista tutti i possibili punti di vista rispetto alla scena, ha messo in backlight un ARRIMAX 18/12 e per il taglio un ARRI 12K con lampada HMI Par. In questa scena la pellicola restituisce tutta la sua latitudine di posa lavorata con particolari processi di sviluppo che i laboratori DeLuxe hanno messo a punto. Si tratta del processo ACE – Adjustable Contrast Enhancement – che con una reazione chimica di ritenzione dell’argento tende a rendere i neri più corposi e poco rumorosi. Richardson fotograficamente spezza in due il cammino dell’eroe. La prima parte del film sono nella stragrande maggioranza location nel freddo Wyoming.

L’atmosfera è violacea e desaturata, mantenendo corposi i neri. La seconda parte del film, che inizia con l’arrivo nella tenuta di Calvin Candie (L. Di Caprio) è mortalmente luminosa di giorno e funebre di notte. La daylight è il contrasto fra libertà e schiavismo in chiave cromatica, la nightlight degli interni a lume di candela è la lotta fra odio e amore. Tutta la seconda parte del film trasforma lo ‘spaghetti western’ italiano nello ‘spaghetti southern’ di Tarantino. D’altronde la piantagione di Candieland è in Mississippi, una delle regioni più calde degli States. Il film qui assume un tono cromatico molto saturo, sul modello del Technicolor Process 45. Nella tana del ‘lupo’ il contrasto è capovolto. Il background è più scuro del foreground e così la percezione luminosa ci restituisce un Django ‘meno nigger’ e più scatenato. Letteralmente. E dobbiamo commettere un errore grammaticale per indicare con la parola scatenato che Django da adesso in poi sarà, simbolicamente, senza catene (come suggerisce il titolo originale). E come gli anelli di una catena sono legati gli uni agli altri, anche Django è indissolubilmente legato agli antagonisti. Fa da ago della bilancia il Dott. Schultz (C. Waltz) necessariamente violento nelle vesti del classico eroe che per fare una cosa buona a volte deve fare il cattivo. Prendiamo la scena dell’uccisione di Calvin. Le candele, e dunque l’illuminazione generale, sono state riprodotte con lampade non convenzionali nel cinema professionale: si tratta di lampade a 300 watt rivestite di teflon con vetro traslucido, tutte controllate da un banco luci – dimmer per abbassarne la loro temperatura colore. Le stesse sono poi tutte inserite nelle china balls.

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Con l’assassinio del dott. Schultz il film piega verso il finale. Da questo punto in poi la scena diventa una sparatoria infinita dove il sangue, anticipato come prologo dal caldo orange dei lumi delle candele, emerge tutto nel suo violento rosso (la locandina del film, infatti, ha lo sfondo completamente rosso). Tarantino adotta due diversi approcci ai movimenti di macchina. In esterni rimarca la cifra stilistica di S. Leone. In interni ci ricorda i movimenti di macchina di M. Ophüls. Richardson, infatti, dichiara che già in preparazione del film, una delle cose convenute era come utilizzare lo zoom. Spesso nel cinema B-movie lo zoom non viene propriamente usato in modo estetico, ma per mimare un carrello ad esempio. In Django la scelta è stata sia estetica (ribattuta da un effetto audio che ne esalta l’effetto visivo, come nell’inquadratura di presentazione del personaggio interpretato da Di Caprio) che di opportunità, come la combinazione del movimento di carrello a quello dello zoom. Ma con quale delicatezza e con che mano (spesso Richardson stesso è il camera operator).

Il DoP Robert Richardson

Prendiamo la scena della cena: l’effetto è di subliminale percezione. Con un long-take la macchina accompagna il maggiordomo Stephen (S. L. Jackson) dalla cucina alla sala da pranzo per terminare sul primissimo piano di Django. Altra ‘magia’ usata nella stessa scena è la scelta di Richardson di spengere, una volta arrivato a primissimo piano di profilo, la luce a destra macchina su Django, di correggere il fuoco sulla battuta del finale di scena e dramma esaltato. …un nero è ancora più nero se sullo sfondo c’è un bianco… Ma in questa lotta fra ‘bianco’ e ‘nero’ a colori c’è un light motiv che accompagna tutto il film: i rimbalzi dall’alto della luce che picchia sui tavoli, sui pavimenti. L’effetto è molto suggestivo e il soft focus dell’anamorfico ne esalta l’effetto di luce ‘divina’. Una su tutte, l’inquadratura di Django appeso a testa in giù di rembrandtiana memoria.

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DJANGO UNCHAINED (2012)

By: Quentin Tarantino 

Director of photography: Robert Richardson

Caratteristiche tecniche

Aspect ratio: 2.40:1

Negative format: film negative Kodak Vision3 500T 5219, 200D 5213, Ektachrome 100D 5285 (scene flashback)

Camera: Panaflex Millenium XL-2

Lenti: Panavision Primo Anamorphic E-Series, ATZ and AWZ2

Cinematographic Process: 

Digital Intermediate 4K (master format);  printed 35 mm Kodak Vision 2383 and DCP

Per approfondimenti, vedi questa pagina e poi consulta qui.

Guarda il video

[1] Gli obiettivi anamorfici, al contrario dei normali obiettivi sferici, formano un’immagine ellittica in verticale. Questi obiettivi, grazie all’anamorfosi della lente, permettono la compressione dello spazio orizzontale inquadrato su uno stesso formato restituendo, a parità di lunghezza focale sferica, una visione raddoppiata sull’asse orizzontale. L’immagine così compressa viene poi decompressa in proiezione grazie sempre ad un obiettivo anamorfico usato però in posizione orizzontale rispetto alla posizione verticale assunta in fase di ripresa. ?
[2] Rispetto alla sensibilità nominale una pellicola si dice ‘tirata’ quando viene considerata più sensibile. Nel caso in cui si raddoppia la sensibilità si dice ‘tirata’ di 1 stop..?
[3] Nella crew cinematografica è il capo elettricista, colui che, su indicazione del direttore della fotografia, realizza l’allestimento del piazzato luci.?
[4] I grid cloth sono dei panni di tessuto sintetico che in gergo vengono chiamate sete. Se issate a vari metri di altezza e/o usate in grosse dimensioni la versione silent è particolamente indicata per impedirne lo sventolio e quindi il relativo rumore.?
[5] In ordine cronologico, è il quarto processo di stampa a colori sviluppato dai laboratori Technicolor. Il processo prevede una stampa a tre matrici complementari ciano magenta e giallo che lavorano a trasferimento di colorante in base alla densità della pellicola matrice. Questo restituisce così per i colori più saturi una maggiore densità e, quindi, una sorta di rilievo del colore. Può essere portato ad esempio il film ‘Un americano a Parigi’ di V. Minelli del 1951, film premiato come Best Cinematography.?

(a cura di Alessandro Bernabucci

Il punto di vista del Direttore della Fotografia

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Luca Bigazzi

Luca Bigazzi, attualmente impegnato nelle riprese del nuovo film di Ivan Cotroneo ‘Un bacio’, ha esordito come direttore della fotografia alla fine degli anni ’80. ‘Paesaggio con figure’ di Silvio Soldini si può considerare il suo primo film. La sua carriera è segnata da ben 7 David di Donatello. Sua è la fotografia dei più interessanti, se non maggiori, film italiani degli ultimi anni, come di molte opere prime. Uno su tutti ‘La grande bellezza’ di Paolo Sorrentino, premio Oscar come miglior film straniero nel 2013.

Veniamo a ‘Django’. L’hai visto? Che ne pensi?
“Non l’ho visto. E’ un cinema che non mi interessa. Io vedo di tutto, però non ho nessun interesse per quel tipo di cinema, né tantomeno per lo spaghetti western. Né moralmente, né politicamente, né fotograficamente. Sin da piccolo sono stato attratto smisuratamente dal cinema, ma ‘Per un pugno di dollari’ o altri film del genere non mi hanno mai colpito. Non sono un estimatore di quell’estetica. E i film di Tarantino mi lasciano abbastanza indifferente”.

Hai vinto 7 David di Donatello per la miglior fotografia.  Ammettiamo che Luca Bigazzi è in giuria e deve assegnare un premio Best Cinematography: cosa giudichi, cosa guardi, cosa ti spinge a premiare un film piuttosto che un altro?
“Mi interessa un tipo di fotografia che riesce ad essere contemporaneamente realistica e nello stesso tempo narrativa e  affascinante. Trovo che nel rispetto della realtà e nel rispetto delle naturalità della luce ci siano una miriade di possibilità espressive maggiori che in una fotografia che dichiara la propria artificiosità (guarda caso il titolo del libro intervista edito da Artdigiland e curato da Alberto Spadafora si intitola ‘La luce necessaria. Conversazione con Luca Bigazzi’, ndr). Non voglio generalizzare, perché penso che ogni film abbia bisogno della sua fotografia. Sono curioso anche di una fotografia non naturalistica o fantascientifica ove questa sia necessaria. Non mi interessa un’immagine bella di per sé. Sono i contenuti ad indicare la ‘giusta’ forma. Una ‘bella fotografia’ è sbagliata se non è al servizio del film”.

Forse per un DoP è un valore aggiunto non avere uno stile, in quanto la luce, come dicevi, deve sposare le esigenze narrative del film e del regista. Ma qual è lo stile di Luca Bigazzi?
“Quando si parla di fotografia io non riesco a non pensare all’idea di una fotografia solamente legata alla luce. Piuttosto ad un’idea legata alla composizione nel senso dell’inquadratura. In termini di racconto secondo me l’inquadratura ha dei valori di significato superiori rispetto alla luce. Io sono interessato a inquadrature dove all’interno di queste è chiaramente compreso l’aspetto fotografico legato alla luce, ma non è essenziale. Sotto questo punto di vista ci sono film dove senti che il ritmo del montaggio, le composizioni fotografiche legate all’inquadratura sono fortemente parte del racconto: questo è quello che mi piace. Detesto anche che il mio stile sia riconoscibile. Credo che la luce non si debba sentire, o si debba sentire il meno possibile. Se nel mio lavoro ci fossero delle soluzioni visive costanti io lo vivrei come un problema. Se le storie sono diverse ma la forma è sempre la stessa c’è qualcosa che non va. In generale possiamo dire che esiste una mistica della luce insopportabile. Il predominio ossessivo della responsabilità del direttore della fotografia sull’immagine va spostato. La questione formale, in termini di responsabilità, va ricondotta ai registi, è una corresponsabilità insieme al regista. Spesso sento che mi vengono attribuiti dei meriti che non ho: io cerco di capire quello che il regista vuole e di dare sempre in modo nuovo il mio contributo. Se i film a volte sono belli è secondo me per merito del regista, non del direttore della fotografia: il caso dei film di Sorrentino è clamoroso da questo punto di vista”.

Tu sei letteralmente un cinematographer, in quanto sei anche camera operator nei tuoi film. Come fai ad essere sia l’uno che l’altro?
Non riesco a separare il discorso sulla luce dal discorso sulla composizione dell’immagine. Sarebbe assurdo. Per il 20% del mio lavoro posiziono le luci e per l’80% faccio l’operatore. E piuttosto se dovessi scegliere farei l’operatore e non il direttore della fotografia. Una volta che il regista ha dato le indicazioni chi rimane davanti all’attore è l’operatore. Stare in macchina significa avere un rapporto con gli attori diretto, molto stretto, molto spesso non verbale e per questo molto più interessante. Un film si racconta con le inquadrature e non solo con le luci.  La luce, con un minimo spostamento dell’attore, un minimo spostamento della macchina o un minimo spostamento della scenografia arriva ad avere un senso ogni volta diverso e solo così si può capire se la luce funziona. Sono convinto che conti di più la scelta degli obiettivi, la posizione della macchina, l’angolazione, la composizione, piuttosto che la luce. E questo con il digitale vale ancora di più”.

Hai anticipato la nostra prossima domanda. Come hai vissuto professionalmente e tecnicamente il passaggio dalla pellicola al digitale? E’ cambiato il tuo modo di illuminare?
“Assolutamente sì. Io già facevo poco uso delle luci prima, adesso sono arrivato ad un minimalismo estremo che mi ha felicemente pacificato. Diciamo però che anche il digitale ha le sue difficoltà. In termini generali a me piace un immagine morbida e quindi mi addolora che con il digitale si stia puntando alla nitidezza. Questa mania di vedere nella più alta risoluzione i volti degli attori non la comprendo. Ma comunque, a parte ciò, siamo di fronte alla possibilità concreta di fare un cinema dove l’impatto e l’ingombro legato all’utilizzo della luce sono dimezzati. Tutta l’esperienza passata a mettere la luce ora mi sta aiutando a toglierla. Questa è per me una grande conquista. Io così sono più agile, più veloce, più leggero, più elastic e spero più attento, quindi, all’immagine come composizione, non più costretto all’utilizzo di luci artificiose e artificiali non più necessarie”.

 

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