IL PRIMO RE

IL PRIMO RE
ovvero “l’alba della luce”

I gemelli sono strappati alla loro attività di pastorizia da una straordinaria esondazione del Tevere, come se il fiume volesse spazzar via la vita del futuro fondatore della città caput mundi prima che questi lo potesse diventare davvero. È così che inizia il film che racconta la lotta ancestrale dei due fratelli contro la natura, gli uomini, il fato, gli dei: tutto respinge Romolo e Remo, tutto respinge la nascita di Roma. Il mito di Romolo e Remo è insomma il tema del quarto lungometraggio di Matteo Rovere. Detto così, potrebbe far pensare a un peplum italiano degli anni 50/60, come ‘Le fatiche d’Ercole’ di Pietro Francisci o ‘Romolo e Remo’ di Sergio Corbucci – sceneggiato tra gli altri anche da Sergio Leone. E invece l’idea che pervade il sottotesto del film è estremamente raffinata: raccontare il mito in un impianto crudo e realistico senza trascurare la presenza incombente della morte e del fato. Daniele Ciprì, anch’egli regista (ricordiamo i suoi esordi insieme a Frano Maresco con la serie TV ‘Cinico Tv’) e costante collaboratore di Marco Bellocchio e Roberta Torre, firma la fotografia del film di Matteo Rovere, con Alessandro Borghi nei panni di Remo e Alessio Lapice in queli di Romolo. Un’operazione ardita, dal punto di vista artistico. La fotografia di Daniele Ciprì, in questo film dai tratti magici e realistici insieme, è più che mai parte integrante della storia. La luce è una forma: impalpabile e tuttavia piena. Portatrice di fato, di magia, di orrore, di umanità. La densità della luce che prende corpo a contatto con la bruma naturale del bosco immerge lo spettatore nel primigenio, nel mito della fondazione, sostiene la magica ritualità della vestale. In questo film la fotografia usa la luce rispettando la forza della sua natura: nei rossi caldi e dolorosi dei fuochi notturni, tra i neri densi che celano l’insidia e terrorizzano il profano. Accompagna l’uomo verso la rinascita, verso la genesi di una civiltà.

Daniele, come nasce il progetto visivo del film e quali sono stati gli input che hanno portato a definirne il canone stilistico?

‘La cosa che dico sempre è che ringrazio Matteo Rovere per avermi fatto un gran regalo. Nel senso che ho sempre avuto l’idea che il senso stretto di fare film è l’immaginazione, immaginare luoghi e luci che prima non c’erano. E questo era un film in costume, un film storico su una vicenda mai immaginata prima. Quando ci siamo incontrati, Matteo aveva dei riferimenti visivi, mi ha fatto vedere Malik e altre cose. Io invece sono partito con l’idea del nostro vecchio cinema: il cinema italiano, quello di genere, anche quello fatto male. I miei riferimenti sono in genere quelli del cinema retrò, anche dei B-Movie alla Mario Bava. Durante i primi incontri, mi veniva in mente proprio un film di Mario Bava: “Ercole al centro della terra”. È un film che ho visto da piccolo, in un cinema parrocchiale. Il centro della terra era una grotta illuminata con delle gelatine: una parete rossa, una blu. Poi c’era del fumo. Quella fu la sua soluzione, quello fu il centro della terra di Mario Bava. Una cosa geniale! Bava era un grande artigiano che immaginava le cose, e non è un caso che anche Orson Welles lo apprezzasse tanto. Volevo giocare a evocare il cinema, per questo ringrazio Matteo. Lo avevo già fatto con “La Buca”. Evocare, raccontare il cinema attraverso cose nascoste. Ne “La buca”, la stanza di Oscar (Sergio Castellitto) è arredata con tanti oggetti che rievocano altrettanti film. È stata una forma di maniacalità con cui volevo ricordare che esisteva il mondo dell’immaginare. Oggi “immaginare” si cela dietro un mondo di immagini. È un paradosso. È soprattutto in questo senso che il film di Matteo è stato un regalo. Ho dovuto chiedermi: com’erano i luoghi ai tempi di Romolo e Remo? Com’era la luce?’

Ci sembra che il lavoro che hai fatto su Il primo Re restituisca magia e realismo al tempo stesso.

‘Il trucco, le scene, il lavoro sulla fotografia dovevano dar forma a un immaginario dove adolescenti e adulti rimanessero colpiti come da un disegno. Abbiamo fatto i provini, abbiamo sporcato gli attori, gli ambienti. Più che un’immagine reale, l’idea è stata quella di fare un disegno. Per far questo ho deciso di desaturare l’immagine, soprattutto le scene ambientate nel bosco, tra le foglie a cui volevo far perdere il colore naturale. Quando il film è uscito, mio figlio mi ha mandato un messaggio. Diceva che, insieme ai suoi amici, aveva avuto la sensazione di vedere una sorta di graphic novel. L’ho girato subito a Matteo e gli ho detto: guarda cosa dicono i ragazzi? Perché in fondo l’idea era proprio questa.’

Un film interamente girato a luce naturale…

‘Girare a luce naturale: quando lo dico a Matteo Attolini, il mio capo elettricista, lui mi guarda e si mette a ridere. Se si parte dall’idea di girare in questo modo, bisogna tener presente che – come si faceva con la pellicola – la luce naturale va sempre aumentata. Nel caso de Il primo Re, gli esterni di giorno sono stati girati tutti a luce naturale, indistintamente, senza l’ausilio di corpi illuminanti e luce artificiale. Per questo è stato fatto un grande lavoro di preparazione: abbiamo calcolato il modo in cui girava il sole, gli orari del tramonto e, soprattutto, abbiamo disposto le scenografie in modo strategico. Per ottimizzare l’uso della luce naturale, si è deciso anche di fare un orario continuato di sette ore – anche se poi, finito il programma, c’erano sempre dei dettagli da fare…
Tonino Zera, lo scenografo, ha disposto le scenografie sul set tenendo conto di come girava la luce, un po’ come si fa quando si costruiscono le chiese. E quindi ha disposto gli ambienti in modo che potessi avere un certo taglio di luce ad una precisa ora del giorno. Quello che abbiamo aggiunto di artificiale è stato solo il fumo. Era come entrare in teatro, invece era pura realtà, almeno per ciò che riguarda la sorgente di luce.’

Come i primi teatri di posa…

‘Esatto. Lavoravamo nel fango, sotto la pioggia e al freddo, però avevo un controllo sulla luce come quando giro in teatro di posa. Ma le scene erano talmente potenti che qualsiasi cosa che riprendevamo ti dava il senso del vero.’

E per le fiamme?

‘Per le fiamme mi sono aiutato con la luce artificiale, soprattutto con una serie di Skypanel dell’Arri. La fiamma viva è pulsante e il picco negativo di intensità spesso non è sufficiente per esporre correttamente il sensore, soprattutto nei campi lunghi, quando la fiamma è lontana dagli attori. Ho utilizzato la luce artificiale per dare costanza alla luce di modo che, anche quando l’intensità della fiamma diminuiva, sugli attori ce n’era sempre un po’. Naturalmente le sorgenti artificiali sono state collocate lontano dalla scena. Per la battaglia notturna ambientata nel primo villaggio, ho utilizzato un numero cospicuo di PAR (acronimo per Parabolic Aluminized Reflector, sono delle lampade con un fascio di luce concentrato sui 45°, ndr). A me i Jumbo (corpi illuminanti che usano in batteria le lampade aircraft a 3200 Kelvin, ndr) non piacciono perché sono fonti uniche e potenti e tendono a svelare la presenza della luce artificiale. Per questa scena è stato il capo elettricista a propormi di utilizzare le PAR, separate l’una dall’altra e controllate da un dimmer. In questo modo siamo riusciti a coprire il monte circostante con tanti punti luce che non snaturavano l’idea della fiamma e, al tempo stesso, ne riducevano il tremolio. La cosa importante è non far capire allo spettatore che hai mescolato la luce naturale a quella artificiale. Questo non mi piace proprio. C’è da dire che oggi, con il digitale, la luce della fiamma puoi controllarla benissimo. Anche se a me sembra che non ne restituisca l’anima, almeno non come la pellicola. Nell’ultimo film che ho girato, “La paranza dei bambini”, Andrea Baracca, il colorist, è riuscito a restituire l’anima del fuoco. Il sensore digitale, da solo, non riesce a farlo, il fuoco risulta sempre un po’ artefatto, sovraesposto, anche se usi l’High Dynamic Range l’Alexa e recuperi le alte luci: la fiamma non è mai quella. La pellicola aveva una chimica, un modo diverso di impressionare il fotogramma. Non è solo un fatto tecnico, è anche un mio modo di vedere il cinema.’

Ti sei avvalso della collaborazione del DIT Dario Indelicato, come avete lavorato?

Dario è un tecnico superlativo, anche troppo per me. A volte litighiamo pure. Mi mette in allerta su un sacco di questioni tecniche, di parametri della macchina, del segnale. Scherzando lo chiamo “il mio laboratorio”. Il rapporto che ho con Dario è simile a quello che avevo con il chimico quando giravo in pellicola. Non è che non conosca la tecnologia elettronica, sono stato addirittura proprietario di un’emittente televisiva, però se posso ci sto alla larga. Mi fanno paura i continui aggiornamenti, e Dario mi da la possibilità di giocare.
Prima di iniziare le riprese, una cosa che facciamo è costruire la LUT, che è fondamentale per avere un’idea di come sarà il film finito. A parte questo devo dire che sul set non uso più la color, non mi piace perdere tempo a fare cose che rifarò in postproduzione. Durante le riprese, con Dario facciamo delle still: delle fotografie per ogni scena che alla fine diventano una sorta di storyboard. È un metodo che mi consente di avere una memoria per poi impostare il lavoro in color grading.’

Hai utilizzato la serie Zeiss anamorphic abbinata ai sensori Arri Alexa Mini e Arri Alexa SXT. Ci puoi raccontare la motivazione della scelta?

‘L’ottica per me è fondamentale, più del sensore. Prima di iniziare il film, Matteo mi ha detto: ci saranno molte scene di lotta corpo a corpo che dovranno avere una relazione visiva con la natura circostante. Ci ho pensato un attimo e gli ho detto: giriamo in anamorfico. Ora sto girando un film su D’Annunzio con gli anamorfici Kowa. Ma Matteo non ama il retrò, così abbiamo scelto la serie Zeiss anamorphic lenses. Gli Zeiss sono obiettivi perfetti, incisi, geometrici, non hanno aberrazioni, per certe cose sembrano lenti sferiche. Però il rapporto prospettico che restituiscono era perfetto per Il primo Re. La lente anamorfica espande l’orizzonte e ci ha consentito di vedere insieme due attori che lottano inseriti nello spazio. Se avessimo usato le lenti sferiche avremmo dovuto stare lontano dalla scena, lontano dal lavoro degli attori. Quando Peter Bogdanovich chiese a John Ford perché non usava il Cinemascope si sentì rispondere: perché non ho tutti questi indiani. E parliamo di due mostri sacri! Questo per dire che l’anamorfico spettacolarizza i luoghi, se lo usi devi avere in campo un sacco di roba. In Italia c’è stato un genio che ha usato il formato cinemascope in un altro modo: Sergio Leone. Ha usato questo formato on per i grandi spazi, i panorami, ma per i dettagli: gli occhi, il sudore, la bocca. Girava in 2P e anamorfizzava. Diceva: “faccio il contrario di John Ford”.’

Nel film alcuni movimenti di macchina sono complessi. Avete utilizzato supporti particolari?

‘La prima questione è stata quella di trovare un operatore combattente. Abbiamo chiamato Guido Michelotti che ho conoscuto su “Ali’ ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi. Nel film di Claudio avevamo lavorato con due macchine in perfetta sintonia, per questo ci sembrava la persona giusta. La seconda questione è stata come muovere la macchina. Avevo previsto sia la Steadicam che il Ronin (sistema di stabilizzazione dell’immagine che non prevede il corpetto ma solo un impugnatura a maniglia, ndr) anche perché il Ronin lo puoi usare in mille modi, ci puoi fare qualsiasi cosa. Puoi stare molto vicino agli attori, ad esempio, che era quello che volevamo. La Steadi l’avevo prevista per altre cose. Alla fine abbiamo usato solo il Ronin. In realtà abbiamo avuto anche una macchina a mano in seconda unità che ha girato i dettagli e parte delle battaglie seguendo le mie indicazioni.’

Quale è stato il tuo rapporto con chi ha curato gli effetti speciali?

‘Per la scena dell’esondazione, la prima, avevamo diverse macchine da presa e una vasca di 45 metri costruita negli spazi di Videa. Prima di fare il sopralluogo, pensavo di avere gli alberi veri ma durante la prima riunione con i tecnici del VFX ho saputo che dovevo mettere il blu dappertutto. Questa è la scena più lavorata in termini di effetti speciali. Però i personaggi li abbiamo filmati dal vero. Li filmavo scegliendo il colore e la direzione della luce presupponendo il lavoro in post-produzione. Il resto invece è reale, tranne il sangue e alcuni colpi delle spade che sono stati migliorati in digitale. Gran parte delle inquadrature delle battaglie erano vere. Le spade erano davvero pesanti come appaiono. In un back stage c’è Matteo che dice: “non dovete avere paura del freddo, non dovete avere paura del fango, combatteremo tutti i giorni anche sotto la pioggia”. Ed è stato proprio così. Borghi i primi giorni era arrabbiatissimo, poi un giorno mi sono avvicinato e gli ho detto “Alessandro, stiamo facendo un lavoro bellissimo”. Lui mi ha guardato e ha detto: “Lo so, altrimenti col cazzo che starei qui nel fango!”. Alessandro è un uomo e un attore straordinario.’

‘Il Primo Re” (2019)
Director: Matteo Rovere
Cinematographer: Daniele Ciprì
Technical specificaions
Camera: Arri Alexa Mini / Arri Alexa SXT
Lenses: Zeiss anamorphic lenses
Negative format: CFast 2.0 – Codex
Printed format: DCP

 

 

 

 

 

Per approfondimenti:

di Stefano Di Leo, teaching supervisor Shot Academy
a cura di Alessandro Bernabucci, education manager Shot Academy

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