CAMERA OPERATOR – Clarissa Cappellani

CAMERA OPERATOR – Clarissa Cappellani

Già forte di una sua personale esperienza maturata soprattutto nell’ambito del cinema documentario, Clarissa Cappellani frequenta SHOT Academy per una sessione di aggiornamento sulle tecnologie digitali nel 2011 (workshop Red One e workshop Red Epic). Nella foto di Valentina Glorioso qui sopra la vediamo imbracciare proprio la Red Epic.
Il mondo del documentario è stato ed è per certi versi la sua vocazione – è sua la macchina di “Summer ’82: When Zappa came to Sicily” del regista e sceneggiatore Salvo Cuccia, apprezzato alla più recente edizione della mostra del cinema di  Venezia. In realtà Clarissa la conosciamo già da tempo, e la teniamo d’occhio. La teniamo d’occhio per il gusto e per quell’istinto di collocare elementi visivi nel quadro senza trascurarne l’equilibrio.

Il suo esordio è nel cinema di finzione. È focus puller nel film “Private di Saverio Costanzo, fotografato da Gigi Martinucci. Collabora con Alessandro Di Gregorio e Federica Di Giacomo e poi, nel 2007, il fortunato incontro con Sabina Guzzanti sul set di “Le ragioni dell’aragosta” in cui Clarissa ricopre il ruolo di secondo assistente operatore. A questo segue  “Draquila – l’Italia che trema” nel 2010 e, l’anno dopo, “Franca, la prima”, entrambi come DoP. Ma forse l’incontro più importante, quello che meglio le ha permesso di esprimere talento e inclinazione, è stato quello con la drammaturga Emma Dante. Il connubio prende il via nel 2004 quando Clarissa assiste alle prove di “Vita mia”; da allora non ha smesso di raccogliere testimonianze del lavoro della regista teatrale, e il materiale è confluito in due documentari di cui Clarissa firma regia e fotografia: “Emma Dante – il gesto necessario” (2009) e “Emma Dante – Sud costa occidentale” (2011),entrambi implacabili e a tratti impietosi pedinamenti dell’artista alle prese con le prove dei suoi spettacoli per il teatro. Quest’anno Clarissa accompagna la Dante nell’esordio alla regia cinematografica con il film “Via Castellana Bandiera”, servendo la bella macchina a mano che caratterizza quasi l’intera parabola cinematografica. Il film, premiato a Venezia con la coppa Volpi a Elena Cotta, è un esordio importante; l’esordio di un’artista che negli anni è riuscita a conquistarsi uno spazio nel panorama del teatro contemporaneo internazionale. Ed è su questo film che abbiamo fatto due chiacchiere con la nostra amica.

Il rapporto con Emma Dante. Come nasce il film.

Il film è tratto dal suo omonimo romanzo, ma ricordo una telefonata di Emma sul finire dell’estate del 2004. Mi diceva che aveva appena fatto un’esperienza allucinante nel budello della strada in cui viveva, via Castellana Bandiera: una signora non voleva farla passare e così anche lei, Emma, si era impuntata, e per un bel pezzo erano rimaste così, una di fronte all’altra. Al telefono già mi disse che aveva deciso che di questa storia ne avrebbe fatto un film. Oggi possiamo dire che la scrittura del romanzo è stata il primo passaggio verso la realizzazione dell’opera, così come Emma l’aveva sentita sin dall’inizio: una visione cinematografica.

La preparazione.

Va fatta una premessa. Gli spettacoli teatrali standard vengono messi su in tre settimane. Prendi Shakespeare, ad esempio: dai le parti agli attori, gli attori preparano la memoria, fai un paio di “prove a tavolino”, poi sul palco il regista dà le intonazioni, i tempi di chi entra ed esce e stop, si va in scena. Il teatro di Emma Dante è profondamente diverso e i suoi spettacoli hanno una gestazione di almeno un anno e mezzo. Semplificando, ecco cosa succede: prima Emma crea il gruppo di lavoro attraverso dei laboratori in cui sceglie gli attori che andranno ad integrarsi con quelli della sua compagnia poi, attraverso quello che lei definisce “le improvvisazioni”, inizia a creare la storia. E a questo punto è passato un anno. Si fanno le prove (altri due mesi come minimo) e poi si va in scena… E poi si continua a provare e a cambiare e a riprovare lo spettacolo durante la tournee!

Nel cinema sta divenendo diffuso malcostume girare i film in quattro settimane, o anche meno. Soprattutto se si tratta di opere prime. Un po’ come nel teatro standard. “Via Castellana Bandiera” non è stato un esordio qualunque, perché non esordiva una sconosciuta ma un’artista affermata. Per questo motivo la coproduzione italo-franco-svizzera che ha sostenuto il film, è riuscita a mettere su un Piano di lavorazione di cinque settimane. Ora: cinque settimane per Emma Dante sono nulla, o meglio sono nulla se non sono sostenute da un lungo periodo di prove.

Prima di girare il film abbiamo lavorato per quattro settimane, che in certo senso sono state il sale del film. Si iniziava con il training, ovvero la ginnastica-danza mattutina che sia gli attori, sia gli assistenti alla regia, sia io facevamo sul palco della Vicarìa (il teatro-laboratorio di Emma), a Palermo. Solo dopo questa divertentissima e faticosissima preparazione iniziavano le prove vere e proprie. Come in Dogville di Lars Von Trier, sul palco abbiamo segnato gli ingombri delle automobili, delle stanze e dei corridoi delle case, abbiamo messo sedie e tavoli e abbiamo provato ogni singolo Piano-sequenza che poi è stato rifatto nel film. L’idea portante lo stile di ripresa è stata quella del Piano sequenza con la macchina da presa a spalla, sotto i numi tutelari di Von Trier e dei Dardenne. La MdP era considerata un’attrice, e quindi doveva provare insieme agli attori. Sempre. Inoltre era un’attrice che, per usare le parole di Emma, doveva avere “uno sguardo non autorizzato”, cioè non doveva seguire la scena in modo pedissequo, ma dare un proprio “timbro” all’azione a cui assisteva. A Emma non interessava che io riuscissi a seguire tutto – anche se, sinceramente, dopo tante prove mi sarebbe stato facile anticipare i movimenti e non perdere una sola battuta – a lei interessava che dalla macchina scaturisse un sentimento, un’agitazione emotiva, che scaraventasse il pubblico all’interno di quelle auto, di quel budello ostruito.

Durante le prove abbiamo costruito ogni singolo piano sequenza, decidendo persino le lenti da montare. Le prove sono state girate con una Canon 7D e io su un taccuino segnavo le ottiche utilizzate per poi fare la conversione con il sensore della Red Epic e vedere a che obiettivo corrispondevano. Sul set, poi, quello vero, anche rispetto alle lenti raramente abbiamo cambiato decisione.

Dopo due settimane di prove sul palco siamo passati alle prove in location, ossia nelle case in cui poi avremmo girato e in un’assolata spianata di cemento in cui abbiamo piazzato le auto. Per altre due settimane abbiamo quindi ri-provato e ri-girato il film. Va da se che quando siamo arrivati sul set eravamo certissimi di quello che dovevamo fare.

Il rapporto con il DoP Gherardo Gossi. 

L’incontro con Gherardo Gossi è stato per me la scoperta più bella di questo set. La scelta di un DoP per un’opera prima di una regista “esordiente per modo di dire” non è facile, perché il DoP deve guidare e al contempo farsi guidare. Si potrebbe dire che è sempre così, ma in questo caso le difficoltà sono al cubo. Emma, per dire, è una regista che se ti vede parlare con il cast prima di girare ti rimprovera perché “la macchina da presa non si può mettere d’accordo con gli attori, loro fanno quello che devono fare e tu ti adegui”. Altri DoP si sarebbero spaventati a morte di fronte a una regista così, che non ha fatto neppure un cortometraggio al liceo e che vuole girare tutto macchina a spalla con un campo a 360°, una che non vuole sentir parlare di ‘master, campo e controcampo’ perché le inquadrature le vuole esattamente come le ha provate. Gherardo era l’uomo perfetto, non solo perché è un bravissimo DoP ma anche perché ha una grande competenza della scena teatrale internazionale e quindi sa parlare nella stessa lingua di Emma Dante. È arrivato sul set e non solo ha reso possibile qualsiasi ‘numero’ che avevamo preparato durante prove, ma è entrato in pieno nello spirito del film e nella logica artistica di Emma. Vederlo al lavoro è stato un insegnamento enorme.

Le scelte e le difficoltà tecniche

Abbiamo girato con una Red Epic per ovviare i problemi d’ingombro. Serviva una macchina piccola e potente, con cui mi potessi infilare e uscire dalle automobili per continuare Piani sequenza su per le scale delle abitazioni, intorno ai tavoli, seguendo bambini, passando attraverso porte strette ecc. Il primo giorno dei provini macchina in D-Vision con Stefano Meloni, l’assistente operatore, abbiamo montato e rimontato la Epic in tutti i modi per cercare di eliminare ogni grammo superfluo e bilanciare i pesi nel miglior modo possibile. La macchina è piccola ma poi con batteria, trasmettitore video HD, remote per diaframmi e fuochi, il monitor, lo zoom e il paraluce, si ritorna a un apparato voluminoso e pesante come una normale cinepresa. Per le scene più complesse m’infilavo batteria e trasmettitore in uno zainetto ‘fasciato’ sulla schiena, e allora la MdP tornava piccola. Come dicevo, avevo provato tutto il film con gli attori, e quindi sapevo esattamente come si sarebbero svolte le scene e cosa avrei fatto, sapevo anche l’ottica che avrei usato (quasi sempre il 40mm), Stefano dunque non aveva né tempo né spazio per provare la scena e segnarsi i fuochi. E’ stato bravissimo: grande intuito sui fuochi e senso della scena, e grande sensibilità nel capire come farmi affaticare il meno possibile!

Aneddoti da set.

Se ripenso al film, la prima sensazione che ho è il caldo. E’ stato un agosto torrido come forse mai ne avevo vissuti a Palermo. Caldo amplificato dal fatto che, per il continuo cambiamento della luce (la strada era esposta a sud), Gherardo aveva fatto stendere sopra la via dei teli immensi, creando una serra. Quindi eravamo tutti felici quando in programma c’è stata la scena del gozzo in mare aperto, solo che quella era l’unica scena che non avevamo provato. Siamo saliti sul gozzo come se nulla fosse ma poi, quella che sembrava una semplice inquadratura, si è trasformata subito in un altro Piano sequenza. È stata una delle scene più difficili del film perché rischiavo continuamente di cadere in acqua insieme al microfonista appollaiato pericolosamente a poppa. La comunicazione a distanza era complicatissima: Emma, Gherardo e gli altri stavano su un’altra imbarcazione, il segnale radio andava e veniva, e quindi l’ok della scena lo dovevamo dare noi, intanto il sole stava inesorabilmente tramontando dietro la montagna. Confermata la buona, Stefano ed io ci siamo guardati d’intesa e abbiamo fatto un gran tuffo in acqua bagnando un po’ l’apparecchiatura del fonico. Che naturalmente si è molto arrabbiato. E’ stato il bagno più bello della stagione!

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